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lunedì 14 ottobre 2013

TESTO E VIDEO - IN SOSTEGNO DEI PICCOLI ESERCIZI COMMERCIALI E NON DELLA GDO

Il testo del'intervento di Marco Da Villa :

Deputato: Marco DA VILLA
componente Commissione X “Commercio ed Attività Produttive”

Proposta di Legge n. 750 (XVII Legislatura) su “Modifica all’articolo 3 del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223, convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 2006, n. 248, e altre disposizioni in materia di disciplina degli orari di apertura degli esercizi commerciali”

Discussione generale: seduta del 14.10.2013


Colleghi! 
il tema dell'orario di apertura delle attività commerciali potrebbe sembrare a prima vista di scarsa importanza, rispetto ad altri settori in cui il legislatore è intervenuto con provvedimenti di liberalizzazione. In realtà tale sconfinata libertà d'orario è una delle concause di grave crisi che vive il settore del commercio e, di conseguenza, le nostre città, piccole, medie o grandi che siano.
Si è arrivati alla situazione attuale con diversi passaggi legislativi nel tempo ma l'origine di questa storia, voglio ricordarlo a me stesso e a tutti voi, si ha l’11 giugno del 1995, data in cui il Referendum abrogativo conferma che i cittadini italiani non sentono affatto il bisogno di una nuova disciplina degli orari: la consultazione referendaria si chiude con una netta risposta negativa da parte dell’elettorato (62,5%) al quesito se liberalizzare gli orari dei negozi. Il risultato del referendum viene però sostanzialmente ignorato e nel 1998, il D. Lgs. n. 114/98, il cosiddetto “decreto Bersani”, apre le danze della liberalizzazione degli orari di apertura degli esercizi commerciali con le 8 domeniche più tutti i festivi di dicembre.
Analizziamo ora le varie ragioni in forza delle quali è necessario riconoscere che la tendenza normativa in esame è errata e che occorre invece invertire la rotta il prima possibile:
1. APERTURE DOMENICALI PER IL PIL?
In uno studio del 2009, Federdistribuzione stimava che l’introduzione della liberalizzazione delle aperture domenicali avrebbe portato ad un aumento di quasi 4 miliardi dei consumi, pari a un incremento di circa il 2%. Previsioni simili a quelle elaborate dal Governo Monti per l'emanazione della norma liberalizzatrice del decreto “Salva Italia” (D.L. 6 dicembre 2011 n. 201 convertito in Legge 22 dicembre 2011 n. 214). Lo stesso studio di Federdistribuzione conferma anche che le aperture domenicali sistematiche spostano, semplicemente, i consumi dai giorni feriali alla domenica, durante la quale si totalizzerebbero il 16,5% delle vendite totali della settimana. Oltre il doppio del 7% registrato nel regime precedente.

Ebbene, nel periodo in cui la nuova normativa è entrata in vigore, abbiamo assistito al peggior crollo della storia repubblicana, con una flessione del 4,3% nel 2012 e un’ulteriore diminuzione del 2% prevista per quest’anno.
Quindi, in conclusione, nessun aumento del PIL ma una mera redistribuzione degli acquisti sui diversi giorni della settimana, a favore della domenica e a scapito degli altri giorni.

2. APERTURE DOMENICALI PER L'OCCUPAZIONE?
La concentrazione dei consumi nel weekend ha favorito la grande distribuzione, contribuendo all’aumento dell’erosione di quote di mercato della gran parte dei piccoli esercizi. Questi, infatti, non sono nelle condizioni di poter sostenere l’aggravio di costi, diretto ed indiretto, in particolare a valere sul fattore lavoro, derivante dalle aperture domenicali. L’effetto sulle piccole superfici è stato devastante: tra il 2012 e i primi mesi del 2013, abbiamo perduto, per sempre, 31.483 imprese del commercio al dettaglio, ed una perdita stimata di 90 mila posti di lavoro.
Piuttosto emblematico, a tal proposito, è uno studio del 2010 (quindi ancora non in piena crisi economica) dell'autorevole CGIA di Mestre, secondo cui in Veneto, dal 2001 al 2009, si sono guadagnati 21.000 posti di lavoro nella GDO (grande distribuzione organizzata) ma, contemporaneamente, se ne sono persi 130.000 nelle piccole botteghe di città, un rapporto quindi di 1 a 6 (Corriere del Veneto, 01.05.2010).
Va ricordato poi che il proliferare di grandi superfici di vendita, a causa dell'insana dinamica della moneta urbanistica ricavata dai Comuni, sta spingendo, complice la crisi, ad una guerra dei prezzi senza precedenti che, di fatto, si ripercuote sulla pelle dei lavoratori: in Veneto, la mia regione, una grossa catena di supermercati ha chiuso recentemente tre degli undici punti vendita che aveva mentre le catene francesi hanno messo migliaia di lavoratori in regime di “contratto di solidarietà” per un anno e per alcuni punti vendita si è già passati attraverso un periodo di cassa integrazione in deroga a rotazione di ben 34 mesi.
In conclusione, pure qui, l'obbiettivo di una maggior occupazione non è stato raggiunto. Anzi, nel contratto del Commercio, ormai la domenica lavorativa è considerata obbligatoria e non retribuita come straordinaria ma, semplicemente, con una maggiorazione che può andare dal 10 al 30% (tradotto: lavorare la domenica può significare dai 6 ai 12 euro in più). E in molti contratti di secondo grado si considerano pure le altre festività come obbligatorie.

3. APERTURE DOMENICALI PER FAVORIRE LA CONCORRENZA?
L'intervento legislativo del decreto “Salva Italia”, si è detto, è finalizzato soprattutto a garantire il valore, costituzionalmente garantito (art. 41 e 117 comma 2 lett. e), della “tutela della concorrenza” anche se si è inciso, peraltro, in modo controverso su una materia di competenza legislativa esclusiva delle Regioni (art. 117 comma 4) com'è il commercio.
Su questo tema vorrei sottoporre all'aula quanto scritto da alcuni giudici del TAR Veneto, proprio in relazione ad una lite sulle aperture domenicali tra un maxi Outlete e i suoi diretti concorrenti della piccola distribuzione.
I giudici hanno affermato: “…la vigente disciplina in materia di commercio (precedente al Salva Italia) non persegue in via esclusiva una finalità liberalizzatrice, [---connessa al solo scopo di tutelare la libertà delle imprese e la concorrenza, in una prospettiva di sostanziale deregolamentazione del settore,---] giacché questo obiettivo “avrebbe quale esito estremo il rafforzamento sul mercato (delle imprese) di maggiori dimensioni a discapito proprio di un mercato concorrenziale, [---ed esaurirebbe l’intera disciplina nell’ambito della competenza legislativa statale di cui all’art. 117, secondo comma, lett. e) della Costituzione, giungendo a negare una propria autonomia al “commercio” inteso come “materia attribuita alla competenza legislativa residuale delle regioni---]…In ragione dei rilevanti effetti di carattere urbanistico e sociale che derivano dalla presenza o meno di esercizi commerciali sul territorio, la predetta disciplina mira a una regolamentazione finalizzata a contemperare i principi e i valori della concorrenza con la salvaguardia delle aree urbane, dei centri storici, della pluralità tra diverse tipologie delle strutture commerciali e della funzione sociale svolta dai servizi commerciali di prossimità…per l’art. 1, comma 3, lett. b), d), ed e) del D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 114, la disciplina sul commercio persegue anche le finalità della “tutela del consumatore, con particolare riguardo (…) alla possibilità di approvvigionamento, al servizio di prossimità”, del “pluralismo ed equilibrio tra le diverse tipologie delle strutture distributive e le diverse forme di vendita, con particolare riguardo al riconoscimento e alla valorizzazione del ruolo delle piccole e medie imprese” (TAR Veneto, III sezione, sentenze n. 3819 del 23.12.2009 e 135 e 137 del 26.01.2010).
Quanto detto dal TAR Veneto è stato ribadito, In un recente convegno sulle liberalizzazioni, dal direttore generale di Bankitalia, Salvatore Rossi, il quale ha affermato: “un mercato non sottoposto a regole e controlli finisce con l'autosmantellarsi a causa dell'endemica tendenza dei soggetti che vi operano come venditori a ridurre la concorrenza...”.
Ecco, questo è proprio quello che sta succedendo col commercio in Italia.

Uno studio di CONFCOMMERCIO, audita in sede di Commissione X, ci dice, a conferma di questo scenario, che dal 1996 ad oggi la “fetta” di distribuzione commerciale occupata dalla GDO è passata dal 36,9 al 46,1% e questa tendenza è particolarmente accentuata nel settore alimentare causando, a cascata, posizioni abusive nei confronti dei fornitori per spuntare prezzi sempre più bassi (iniqui?). Il Parlamento europeo, proprio alcuni fa, aveva rilevato tale situazione e chiesto alla Commissione di avviare una specifica indagine visto che in altri Paesi la situazione di abuso è anche peggiore: in Francia i primi cinque distributori hanno una quota del mercato alimentare pari al 90%, in Germania è del 76%, nel Regno Unito del 70%.
4. APERTURE DOMENICALI PER IL DEGRADO DELLE CITTA'?
L'Italia però è il Paese dei quasi 8.100 Comuni, spesso anche piccoli e piccolissimi.
In una realtà come la nostra, misure legislative favorevoli alla GDO, come quelle sulla libertà totale degli orari di apertura, e previsioni urbanistiche selvagge non possono far altro che aggravare la situazione di desertificazione e degrado che vivono moltissime città italiane: CONFESERCENTI ha stimato per l'anno passato circa 500.000 negozi sfitti in tutta ltalia, per una perdita annua di 25 miliardi di euro in canoni non percepiti. In termini di gettito fiscale sfumato, circa 6,2 miliardi ogni anno: una cifra superiore al gettito realizzato grazie all’IMU prima casa (circa 4 miliardi di euro) o all’aumento di un punto dell’aliquota ordinaria IVA (oltre 4 miliardi).
Gli esercizi di vicinato, peraltro, con le loro vetrine illuminate e la figura del negoziante, costituiscono un presidio nel territorio e quindi fattore di dissuasione per atti di vandalismo e microcriminalità, viceversa serrande abbassate e cartelli di “vendesi” e “affittasi” possono costituire un ambiente favorevole a fenomeni di violenza, criminalità e degrado con aumento dei costi per la pubblica sicurezza a carico dello Stato.
5. APERTURE DOMENICALI PER ALLINEARSI ALL'EUROPA?
Per indorare la “pillola” della liberalizzazione sugli orari dei negozi si è spesso detto che la cosa viene fatta per mettersi al passo con gli altri Paesi europei. Peccato che il governo Monti sia stato forse fin troppo zelante: nessun Paese in Europa ha infatti una regolamentazione da “h24” come l'Italia. Germania, Francia, Spagna e la laicissima Olanda prevedono la chiusura nelle domeniche.

6. APERTURE DOMENICALI PER LA TUTELA DEI RAPPORTI FAMILIARI?
Il mondo del commercio è soprattutto femminile, con stipendi medi che oscillano dai 700 ai 1300 euro: ci sono testimonianze di famiglie che non riescono neppure più a vivere i momenti di festa insieme, mamme che non riescono a trascorrere una giornata intera con i figli da svariati mesi, famiglie che vivono una tristissima realtà di “separati in casa”, di mariti costretti a prendersi ferie per incontrarsi con la moglie che ha lavorato la domenica.
Sembrano banalità ma non lo sono affatto per chi vive queste situazioni: il Parlamento si deve porre questi problemi visto che l'attività lavorativa della donna è tutelata specificamente all'art. 37 della Costituzione dove si afferma anche che “le condizioni di lavoro devono consentire l'adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione”. 
[Chiudo, ricordando la testimonianza dell’imprenditore Veneto venuto a presenziare nella X commissione lo scorso agosto. Lo ricordo perché testimone del glorioso, produttivo e mitico Nord-Est. Quest’uomo, anzi questo Signore, sottolineo signore con la S maiuscola, con grande dignità, emozione, compostezza e con le lacrime agli occhi ci ha sbattuto in faccia la realtà. Ci ha ricordato che il decreto “Salva Italia” di Monti sta tenendo in ostaggio la sua famiglia e i suoi affetti, non ha più vita privata e un debito sempre più grande a cui non riesce per la prima volta a far fronte ].
Quindi, abbiamo capito che le aperture domenicali non servono per accrescere il PIL, per favorire l'occupazione, per aumentare la concorrenza, per combattere il degrado dei centri storici, perché “ce lo chiede l'Europa”.
E allora a cosa servono? Cito testualmente un articolo dal titolo: “I circoli nei luoghi di lavoro e di studio” http://www.partitodemocratico.it/doc/76647/i-circoli-nei-luoghi-di-lavoro-e-di-studio.htm
“[...]è necessario procedere ad un lavoro di diffusione e radicamento negli ambienti di lavoro e di studio, attraverso la costituzione di circoli in grado di attivare una reale presenza nelle diverse realtà lavorative, […] avvicinare potenziali nuovi iscritti che, per caratteristiche soggettive o professionali, sono più facilmente coinvolgibili e attivabili [...].
A seconda delle varie realtà un circolo del commercio, può nascere come esigenza territoriale, sostanziandosi, ad esempio, anche in un’articolazione che riguarda la grande distribuzione (lavoratori dei super \ ipermercati).” 
Questo è scritto sul sito del Partito Democratico. Non so se si è capito, ma stiamo parlando di circoli del PD all'interno dei grandi centri commerciali!
Ecco, speriamo che non siano queste le intenzioni che determineranno il voto di quest'aula.