Deputato: Marco DA VILLA
componente Commissione X “Commercio ed Attività Produttive”
Proposta di Legge n. 750 (XVII Legislatura) su “Modifica all’articolo 3
del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223, convertito, con modificazioni,
dalla legge 4 agosto 2006, n. 248, e altre disposizioni in materia di
disciplina degli orari di apertura degli esercizi commerciali”
Discussione generale: seduta del 14.10.2013
Colleghi!
il tema dell'orario di apertura delle attività commerciali potrebbe
sembrare a prima vista di scarsa importanza, rispetto ad altri settori
in cui il legislatore è intervenuto con provvedimenti di
liberalizzazione. In realtà tale sconfinata libertà d'orario è una delle
concause di grave crisi che vive il settore del commercio e, di
conseguenza, le nostre città, piccole, medie o grandi che siano.
Si è
arrivati alla situazione attuale con diversi passaggi legislativi nel
tempo ma l'origine di questa storia, voglio ricordarlo a me stesso e a
tutti voi, si ha l’11 giugno del 1995, data in cui il Referendum
abrogativo conferma che i cittadini italiani non sentono affatto il
bisogno di una nuova disciplina degli orari: la consultazione
referendaria si chiude con una netta risposta negativa da parte
dell’elettorato (62,5%) al quesito se liberalizzare gli orari dei
negozi. Il risultato del referendum viene però sostanzialmente ignorato e
nel 1998, il D. Lgs. n. 114/98, il cosiddetto “decreto Bersani”, apre
le danze della liberalizzazione degli orari di apertura degli esercizi
commerciali con le 8 domeniche più tutti i festivi di dicembre.
Analizziamo ora le varie ragioni in forza delle quali è necessario
riconoscere che la tendenza normativa in esame è errata e che occorre
invece invertire la rotta il prima possibile:
1. APERTURE DOMENICALI PER IL PIL?
In uno studio del 2009, Federdistribuzione stimava che l’introduzione
della liberalizzazione delle aperture domenicali avrebbe portato ad un
aumento di quasi 4 miliardi dei consumi, pari a un incremento di circa
il 2%. Previsioni simili a quelle elaborate dal Governo Monti per
l'emanazione della norma liberalizzatrice del decreto “Salva Italia”
(D.L. 6 dicembre 2011 n. 201 convertito in Legge 22 dicembre 2011 n.
214). Lo stesso studio di Federdistribuzione conferma anche che le
aperture domenicali sistematiche spostano, semplicemente, i consumi dai
giorni feriali alla domenica, durante la quale si totalizzerebbero il
16,5% delle vendite totali della settimana. Oltre il doppio del 7%
registrato nel regime precedente.
Ebbene, nel periodo in cui
la nuova normativa è entrata in vigore, abbiamo assistito al peggior
crollo della storia repubblicana, con una flessione del 4,3% nel 2012 e
un’ulteriore diminuzione del 2% prevista per quest’anno.
Quindi, in
conclusione, nessun aumento del PIL ma una mera redistribuzione degli
acquisti sui diversi giorni della settimana, a favore della domenica e a
scapito degli altri giorni.
2. APERTURE DOMENICALI PER L'OCCUPAZIONE?
La concentrazione dei consumi nel weekend ha favorito la grande
distribuzione, contribuendo all’aumento dell’erosione di quote di
mercato della gran parte dei piccoli esercizi. Questi, infatti, non sono
nelle condizioni di poter sostenere l’aggravio di costi, diretto ed
indiretto, in particolare a valere sul fattore lavoro, derivante dalle
aperture domenicali. L’effetto sulle piccole superfici è stato
devastante: tra il 2012 e i primi mesi del 2013, abbiamo perduto, per
sempre, 31.483 imprese del commercio al dettaglio, ed una perdita
stimata di 90 mila posti di lavoro.
Piuttosto emblematico, a tal
proposito, è uno studio del 2010 (quindi ancora non in piena crisi
economica) dell'autorevole CGIA di Mestre, secondo cui in Veneto, dal
2001 al 2009, si sono guadagnati 21.000 posti di lavoro nella GDO
(grande distribuzione organizzata) ma, contemporaneamente, se ne sono
persi 130.000 nelle piccole botteghe di città, un rapporto quindi di 1 a
6 (Corriere del Veneto, 01.05.2010).
Va ricordato poi che il
proliferare di grandi superfici di vendita, a causa dell'insana dinamica
della moneta urbanistica ricavata dai Comuni, sta spingendo, complice
la crisi, ad una guerra dei prezzi senza precedenti che, di fatto, si
ripercuote sulla pelle dei lavoratori: in Veneto, la mia regione, una
grossa catena di supermercati ha chiuso recentemente tre degli undici
punti vendita che aveva mentre le catene francesi hanno messo migliaia
di lavoratori in regime di “contratto di solidarietà” per un anno e per
alcuni punti vendita si è già passati attraverso un periodo di cassa
integrazione in deroga a rotazione di ben 34 mesi.
In conclusione,
pure qui, l'obbiettivo di una maggior occupazione non è stato raggiunto.
Anzi, nel contratto del Commercio, ormai la domenica lavorativa è
considerata obbligatoria e non retribuita come straordinaria ma,
semplicemente, con una maggiorazione che può andare dal 10 al 30%
(tradotto: lavorare la domenica può significare dai 6 ai 12 euro in
più). E in molti contratti di secondo grado si considerano pure le altre
festività come obbligatorie.
3. APERTURE DOMENICALI PER FAVORIRE LA CONCORRENZA?
L'intervento legislativo del decreto “Salva Italia”, si è detto, è
finalizzato soprattutto a garantire il valore, costituzionalmente
garantito (art. 41 e 117 comma 2 lett. e), della “tutela della
concorrenza” anche se si è inciso, peraltro, in modo controverso su una
materia di competenza legislativa esclusiva delle Regioni (art. 117
comma 4) com'è il commercio.
Su questo tema vorrei sottoporre
all'aula quanto scritto da alcuni giudici del TAR Veneto, proprio in
relazione ad una lite sulle aperture domenicali tra un maxi Outlete e i
suoi diretti concorrenti della piccola distribuzione.
I giudici
hanno affermato: “…la vigente disciplina in materia di commercio
(precedente al Salva Italia) non persegue in via esclusiva una finalità
liberalizzatrice, [---connessa al solo scopo di tutelare la libertà
delle imprese e la concorrenza, in una prospettiva di sostanziale
deregolamentazione del settore,---] giacché questo obiettivo “avrebbe
quale esito estremo il rafforzamento sul mercato (delle imprese) di
maggiori dimensioni a discapito proprio di un mercato concorrenziale,
[---ed esaurirebbe l’intera disciplina nell’ambito della competenza
legislativa statale di cui all’art. 117, secondo comma, lett. e) della
Costituzione, giungendo a negare una propria autonomia al “commercio”
inteso come “materia attribuita alla competenza legislativa residuale
delle regioni---]…In ragione dei rilevanti effetti di carattere
urbanistico e sociale che derivano dalla presenza o meno di esercizi
commerciali sul territorio, la predetta disciplina mira a una
regolamentazione finalizzata a contemperare i principi e i valori della
concorrenza con la salvaguardia delle aree urbane, dei centri storici,
della pluralità tra diverse tipologie delle strutture commerciali e
della funzione sociale svolta dai servizi commerciali di prossimità…per
l’art. 1, comma 3, lett. b), d), ed e) del D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 114,
la disciplina sul commercio persegue anche le finalità della “tutela
del consumatore, con particolare riguardo (…) alla possibilità di
approvvigionamento, al servizio di prossimità”, del “pluralismo ed
equilibrio tra le diverse tipologie delle strutture distributive e le
diverse forme di vendita, con particolare riguardo al riconoscimento e
alla valorizzazione del ruolo delle piccole e medie imprese” (TAR
Veneto, III sezione, sentenze n. 3819 del 23.12.2009 e 135 e 137 del
26.01.2010).
Quanto detto dal TAR Veneto è stato ribadito, In un
recente convegno sulle liberalizzazioni, dal direttore generale di
Bankitalia, Salvatore Rossi, il quale ha affermato: “un mercato non
sottoposto a regole e controlli finisce con l'autosmantellarsi a causa
dell'endemica tendenza dei soggetti che vi operano come venditori a
ridurre la concorrenza...”.
Ecco, questo è proprio quello che sta succedendo col commercio in Italia.
Uno studio di CONFCOMMERCIO, audita in sede di Commissione X, ci dice,
a conferma di questo scenario, che dal 1996 ad oggi la “fetta” di
distribuzione commerciale occupata dalla GDO è passata dal 36,9 al 46,1%
e questa tendenza è particolarmente accentuata nel settore alimentare
causando, a cascata, posizioni abusive nei confronti dei fornitori per
spuntare prezzi sempre più bassi (iniqui?). Il Parlamento europeo,
proprio alcuni fa, aveva rilevato tale situazione e chiesto alla
Commissione di avviare una specifica indagine visto che in altri Paesi
la situazione di abuso è anche peggiore: in Francia i primi cinque
distributori hanno una quota del mercato alimentare pari al 90%, in
Germania è del 76%, nel Regno Unito del 70%.
4. APERTURE DOMENICALI PER IL DEGRADO DELLE CITTA'?
L'Italia però è il Paese dei quasi 8.100 Comuni, spesso anche piccoli e piccolissimi.
In una realtà come la nostra, misure legislative favorevoli alla GDO,
come quelle sulla libertà totale degli orari di apertura, e previsioni
urbanistiche selvagge non possono far altro che aggravare la situazione
di desertificazione e degrado che vivono moltissime città italiane:
CONFESERCENTI ha stimato per l'anno passato circa 500.000 negozi sfitti
in tutta ltalia, per una perdita annua di 25 miliardi di euro in canoni
non percepiti. In termini di gettito fiscale sfumato, circa 6,2 miliardi
ogni anno: una cifra superiore al gettito realizzato grazie all’IMU
prima casa (circa 4 miliardi di euro) o all’aumento di un punto
dell’aliquota ordinaria IVA (oltre 4 miliardi).
Gli esercizi di
vicinato, peraltro, con le loro vetrine illuminate e la figura del
negoziante, costituiscono un presidio nel territorio e quindi fattore di
dissuasione per atti di vandalismo e microcriminalità, viceversa
serrande abbassate e cartelli di “vendesi” e “affittasi” possono
costituire un ambiente favorevole a fenomeni di violenza, criminalità e
degrado con aumento dei costi per la pubblica sicurezza a carico dello
Stato.
5. APERTURE DOMENICALI PER ALLINEARSI ALL'EUROPA?
Per
indorare la “pillola” della liberalizzazione sugli orari dei negozi si è
spesso detto che la cosa viene fatta per mettersi al passo con gli
altri Paesi europei. Peccato che il governo Monti sia stato forse fin
troppo zelante: nessun Paese in Europa ha infatti una regolamentazione
da “h24” come l'Italia. Germania, Francia, Spagna e la laicissima Olanda
prevedono la chiusura nelle domeniche.
6. APERTURE DOMENICALI PER LA TUTELA DEI RAPPORTI FAMILIARI?
Il mondo del commercio è soprattutto femminile, con stipendi medi che
oscillano dai 700 ai 1300 euro: ci sono testimonianze di famiglie che
non riescono neppure più a vivere i momenti di festa insieme, mamme che
non riescono a trascorrere una giornata intera con i figli da svariati
mesi, famiglie che vivono una tristissima realtà di “separati in casa”,
di mariti costretti a prendersi ferie per incontrarsi con la moglie che
ha lavorato la domenica.
Sembrano banalità ma non lo sono affatto
per chi vive queste situazioni: il Parlamento si deve porre questi
problemi visto che l'attività lavorativa della donna è tutelata
specificamente all'art. 37 della Costituzione dove si afferma anche che
“le condizioni di lavoro devono consentire l'adempimento della sua
essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una
speciale adeguata protezione”.
[Chiudo, ricordando la testimonianza
dell’imprenditore Veneto venuto a presenziare nella X commissione lo
scorso agosto. Lo ricordo perché testimone del glorioso, produttivo e
mitico Nord-Est. Quest’uomo, anzi questo Signore, sottolineo signore con
la S maiuscola, con grande dignità, emozione, compostezza e con le
lacrime agli occhi ci ha sbattuto in faccia la realtà. Ci ha ricordato
che il decreto “Salva Italia” di Monti sta tenendo in ostaggio la sua
famiglia e i suoi affetti, non ha più vita privata e un debito sempre
più grande a cui non riesce per la prima volta a far fronte ].
Quindi, abbiamo capito che le aperture domenicali non servono per
accrescere il PIL, per favorire l'occupazione, per aumentare la
concorrenza, per combattere il degrado dei centri storici, perché “ce lo
chiede l'Europa”.
“[...]è necessario procedere ad un lavoro di diffusione e radicamento
negli ambienti di lavoro e di studio, attraverso la costituzione di
circoli in grado di attivare una reale presenza nelle diverse realtà
lavorative, […] avvicinare potenziali nuovi iscritti che, per
caratteristiche soggettive o professionali, sono più facilmente
coinvolgibili e attivabili [...].
A seconda delle varie realtà un
circolo del commercio, può nascere come esigenza territoriale,
sostanziandosi, ad esempio, anche in un’articolazione che riguarda la
grande distribuzione (lavoratori dei super \ ipermercati).”
Questo è
scritto sul sito del Partito Democratico. Non so se si è capito, ma
stiamo parlando di circoli del PD all'interno dei grandi centri
commerciali!
Ecco, speriamo che non siano queste le intenzioni che determineranno il voto di quest'aula.